Il francoprovenzale è vivo sia nella parlata di Faeto che in quella di Celle. Tuttavia, e sono molti a chiederselo, questo idioma, per la travolgente rapidità degli eventi, conserverà la stessa genuinità nella lingua delle generazioni future? L'avanzare del progresso cancellerà anche le tradizioni, di cui il linguaggio è la sola labile testimonianza? Già un secolo fa, perplessità, preoccupazioni e timori del genere se li poneva l'articolista di Le colonie provenzali di Lucera, il quale su il Supplemento mensile illustrato del Secolo (4), parlando di Faeto e Celle, così si esprimeva: "Quello che più interessa, soprattutto il filologo, si è che questi due paesi, non solo si chiamino ancora oggidì provenzali, ma che come Pompei ed Ercolano, sepolti dalle lave, ci hanno conservato la città romana, così Faeto e Celle, posti sulla cresta di alto monte, messi in comunicazione con altri paesi pe r la sola via del Cel 'acqua e il sole...".
Da allora sono passati oltre cento anni e la profezia dell' articolista per fortuna non si è avverata.
Certo, le profonde trasformazioni verificatesi in meno di un secolo hanno avuto molta influenza anche nell'evoluzione della cultura popolare, includendo in essa anche il suo mezzo più espressivo che è la lingua.
Anche l'italiano, del resto, sta soffrendo l'invasione soprattutto della lingua anglo-americana, che si presenta agli occhi di molti come indispensabile al superamento delle barriere nazionali. Non si può disconoscere che tutte le lingue sono in continua evoluzione, cambiano, mutano e vengono plasmate da continui messaggi che ci arrivano dai giornali e dalla televisione. Oggi si sta perdendo la memoria terminologica di tutti quegli oggetti che non vengono più usati nel lavoro quotidiano e che l'avvento della tecnologia ha profondamente mutato, cancellando antiche abitudini, regole e modalità di lavoro.
Nonostante ciò, oggi a Faeto e a Celle si continua a parlare il francoprovenzale e non il provenzale come si credeva erroneamente fino alla seconda metà del secolo scorso, quando studi di glottologia accertarono e dimostrarono che la lingua dei Faetani e dei Cellesi non era quella di derivazione provenzale bensì francoprovenzale.
Prima che fossero compiuti tali studi, gli abitanti di Faeto e Celle erano conosciuti come provenzali o, addirittura, albanesi.
Fu la traduzione della IX Novella del Decamerone di Boccaccio, La Dama di Guascogna ed il re di Cipri, effettuata da Francesco Alfonso Perrini (5) e pubblicata da Giovanni Papanti6 nel 1875, ad eliminare una lacuna alla nostra dialettologia e ad indirizzare gli studiosi all'individuazione del tipo linguistico francoprovenzale.
Il merito di aver isolato la parlata francoprovenzale dalla lingua d'oc (occitanica, provenzale) e da quella prettamente francese d'oil e di averla in seguito riconosciuta come lingua romanza a sé stante, va a Graziadio Isaia Ascoli (7), che fu il padre e il fondatore della glottologia in Italia.
Il francoprovenzale di Faeto e Celle, proprio perché non ha avuto più contatti diretti con la regione d'origine, è rimasto ibernato al secolo XIII. Ciò ha costituito e costituisce per gli studiosi un utile strumento di lavoro anche per verificare e confrontare quei fenomeni linguistici che nelle regioni originarie sono mutati o si sono persi.
Se dal punta di vista linguistico si è potuto accertare la zona di provenienza dei francoprovenzale di Faeto e Celle, il motivo del loro arrivo, della loro presenza e della loro stabilizzazione resta ancora, sotto alcuni aspetti, un vero e proprio mistero.
Diverse sono le ipotesi avanzate dagli studiosi. Alcune contrastano tra loro; ma queste, per avere una loro veridicità e per essere attendibili, devono essere suffragate da una valida documentazione storica.
Del resto, la storia è fatta di documenti, di atti di archivio; se questi mancano, certamente non si può parlare di storia. Si può, al limite, parlare di ipotesi.
Vi è la tesi degli eretici Valdesi, sostenuta dallo storico Gilles (8) e condivisa, in seguito, da altri storici riformati: Léger (9), Charvaz (10), Amabile (11), Rivoire (12), Comba (13), Teofilato (14), De Boni (15), Cantù (16), ed altri, secondo la quale la na scita di Faeto e Celle sarebbe da collegare a quella corrente ereticale che ebbe origine verso la metà del secolo dodicesimo ad opera dei Pàtari, Càthari o Puri, Arnaldisti, Poveri di Lione, Poveri Lombardi, tutti discepoli ed estimatori di Pietro Valdo (17), e si protrasse nei secoli successivi.
Stando al Gilles fu intorno al 1400 che molti Valdesi, perseguitati dal Santo Ufficio, quando la corte pontificia risiedeva ad Avignone (18), oltre che in Calabria, vennero anche in Puglia e qui edificarono cinque paesini fortificati: Monteleone, Montaguto, Faeto, Celle e Motta; nel 1517, alcuni profughi di Freyssinières ed' altre valli valdesi andarono ad abitare Volturara, chiamativi da Alberico Carafa, signore del luogo (19).
La tesi sostenuta dal Gilles, però, non è del tutto credibile per una serie di motivazioni che prima il Melillo (20) e poi il Castielli (21) hanno già ampiamente trattato e confutato.
Faeto esisteva già prima del 1400 come, del resto, gli altri paesi citati dallo stesso storico.
Il Melillo sottolinea, però, che si trattò di: "un movimento eretico e non già di una colonizzazione di eretici".
Il Castielli asserisce che è: «...estremamente improbabile un rifugiarsi di eretici nelle nostre zone, in un tempo in cui queste erano tenute sotto attenta vigilanza dalla Inquisizione del regno di Napoli, "pagata"- anche per la nostra Capitanata- dai sovrani angioini »; sempre il Castielli avanza poi il problema linguistico della provenzalità dei Valdesi, provenienti dalla Provenza, che contrasterebbe con il francoprovenzale accertato e parlato dai Cellesi e Faetani.
Il Melillo, oltre a condividere le ipotesi del Castielli, citando come fonti il Giustiniani (22) e il Bacco Alemanno (23), porta anche la tesi dell'aumento di popolazione verificato si in tale periodo, il che escluderebbe un'effettiva persecuzione.
La nascita di Faeto e di Celle sarebbe da far risalire alle vicende degli ultimi sovrani svevi: Manfredi, figlio di Federico II, e suo nipote Corradino con gli Angioini.
Carlo I, figlio del re di Francia Luigi VIII e di Bianca di Castiglia, conte dell' Anjou, del Maine, dell'Hainaut e di Provenza, venne a Roma nel 1265, chiamato dal papa Clemente IV, per combattere Manfredi di Svevia, re di Sicilia che minacciava i domini romani. Qui fu nominato senatore dal partito guelfo, e qui lo raggiunse il suo esercito, passato dal Piemonte in Lombardia, appoggiato dagli Estensi, senza incontrare resistenza.
Il 6 gennaio dell' anno seguente venne solennemente incoronato in San Pietro re di Sicilia e subito dopo iniziò la marcia verso il Mezzogiorno.
Il 26 febbraio dello stesso anno si scontrò a Benevento con il re Manfredi; questi, dopo una viva resistenza delle milizie tedesche e saracene, abbandonato anche da quelle feudali, fu sconfitto e ucciso.
Anche il tentativo di Corradino di Svevia, figlio di Corrado IV di opporsi a Carlo d'Angiò e di recuperare il regno di Sicilia riuscì vano.
Nell'agosto del 1268 presso Tagliacozzo, negli Abruzzi, l'esercito Svevo venne sconfitto. Corradino riuscì a rifugiarsi ad Astura, fra Anzio e Terracina, presso un tale Giovanni Frangipane, che lo tradì consegnandolo al re Carlo.
Il 29 ottobre dello stesso anno Corradino venne decapitato a Napoli.
Carlo s'impadronì in breve di tutta l'Italia Meridionale. I Solo i saraceni di Lucera, asserragliatisi nel castello, resistettero al suo urto, rappresentando un "osso duro" per Carlo. Per sconfiggerli fu costretto a porre in atto, nella primavera del 1269, «...un minuzioso piano strategico...» (24).
È durante questo lungo assedio che gli storici locali già citati e il Rubino (25) pongono la nascita delle due colonie di Faeto e Celle.
Carlo I d'Angiò, con l'editto dell'8 Luglio 1269 (26), distaccò da Lucera un nucleo di duecento soldati e li spedì al Castello di Crepacuore (Castrum Crepacordis) (27), antica fortificazione romana sita sulla vetta del Monte Castiglione a ridosso della strada Appia-Traiana, per ostacolare le incursioni dei Saraceni ed impedire i danni che essi erano solito arrecare alle persone e alle cose. «...ordinò contemporaneamente ai Maestri Giurati, Bajuli, Giudici ed Università di Ariano, Montefuscolo, Paduli, Apici, Montecalvo, Zuncoli, Casalbore, Flumari, Trivico e loro Casali, Grotta, Ripalonga, Monte Malo, Polcarino, Monte Falcone, Pietra Maggiore, Castelfranco, S. Severo, ed Amandi, che mandassero, coll'obligo di pagar a ciascuno tre Augustali al mese, cinquecento Servienti, armati di tutte quelle armature, descritt e nell'ordine dato, e che tutti trovar si dovessero radunati a i 14 di luglio presso Monte Calvo per andar poi ad esso Castello, dove trovata avrebbero la milizia Reale» (28).
Il re ordinò ai detti comuni di accogliere Tommaso Mansella di Salerno quale incaricato per la ricostruzione del castrum Crepacordis.
I lavori di ripristino furono effettivamente avviati perché il d'Angiò l'11 agosto «...richiama il Mansella al dovere di consegnare ai servientes impegnati a Crepacore totam pecuniam... pro stipendiis» (29).
Il 27 agosto 1269, Carlo d'Angiò, dopo mesi di assedio e resistenza, riuscì a piegare anche i saraceni di Lucera che «...coi piedi scalzi, con le corde al collo, sparsi i capelli di cenere, nel fango, s'inginocchiarono all' angioino arrendendosi a discrezione» (30).
Diventò, così, padrone dell'Italia meridionale e arbitro di tutta la penisola, sostituendo i funzionari svevi con feudatari francesi. «...Città, terre, castella, cariche e dignità furono date ai Francesi che si erano stabiliti nel Regno col nuovo monarca» (31).
Anche ai duecento soldati che aveva spedito al Castrum Crepacordis concesse di restare nel vicino e quasi disabitato Casale Crepacore con l'annesso omonimo territorio, feudo dei Cavalieri Gerosolimitani, assegnando loro una porzione del territorio di Crepacore.
Successivamente, Carlo d'Angiò fece venire le famiglie dei duecento soldati di Crepacore. Esse, raggiunti i familiari, restarono tranquille ed operose per un certo numero di anni. Fino a quando, non si sa con esattezza.
Quando ricominciarono le ostilità tra le stesse dinastie Angioine ed in seguito con gli Aragonesi, che minacciavano la tranquillità del posto da loro occupato, attraversato dalla Via Traiana, la più importante via dell'epoca, le famiglie decisero di abbandonare il Casale e di trovare una più tranquilla residenza nello stesso territorio a loro concesso.
La maggior parte delle famiglie si sistemò nei pressi del cenobio dei Benedettini, detto Monasterium Sancti Salvatoris de Fageto (32), nei pressi dell'attuale campo sportivo e distante poche centinaia di metri da un altro monastero, quello di Sancte Marie de Faieto o Fageto (33). Nacque, così, Faeto: dai nomi Faieto o Fageto con i quali venivano denominati i due monasteri.
La restante parte andò ad occupare il Casale San Felice (34) e, successivamente, un fabbricato costruito dai frati del Cenobio di San Nicola (35) per la loro residenza estiva. Nacque Celle San Vito, la cui denominazione scaturì dalle celle monacali di tale residenza estiva e dalla ecclesia sancti Viti.
Siamo intorno alla metà del 1300.
Non sappiamo con esattezza quando ciò avvenne; certamente qualche anno prima del 1343, anno in cui il Giustiziere di Capitanata fa espressa menzione di Faeto e Celle.
Un altro documento certo è quello della regina Giovanna d' Angiò, che nel 1354 assegna Faeto e Celle alla diocesi di Troia. Successivamente, avvenimenti politici e religiosi sconvolsero la vita tranquilla del paese.
Da registrare innanzi tutto le scorrerie, la prepotenza e l'arroganza del figlio di Alfonso V di Aragona, Ferdinando I.
Questi, sconfitto da Giovanni d'Angiò, assediò in seguito le città di Troia ed Orsara, dove i suoi rivali si erano fortificati. Dopo alterne vicende, Ferdinando I riuscì ad espugnare le città e a mettere in fuga i francesi, i quali, raggiunti nei pressi di San Vito, vennero definitivamente sconfitti il 18 agosto del 1462.
La località dove avvenne il terribile scontro da allora ha preso il nome di Lago di Sangue, proprio a ricordo del triste e sanguinoso evento, il quale segnò, dopo due secoli di dominio, la fine del governo angioino nel Regno di Napoli.
Ferdinando, diventato il nuovo "padrone" dell'Italia meridionale, s'impossessò arbitrariamente di tutto il territorio di Faeto, di Celle, di Greci e di Orsara per destinarlo ad allevamento di puledri.
La perdita della libertà comunale con la istituzione della baronia di Val Maggiore, a cui erano sottoposto Faeto, e la mancanza della guida morale, religiosa, scientifica e letteraria dei monaci che abbandonato il convento del SS. Salvatore, costituirono motivi di decadenza per i Faetani.
La Baronia di Val Maggiore, che comprendeva Castelluccio, Faeto e Celle, fu istituità il 5 febbraio 1440 dal re Renato d'Angiò con la nomina a Barone del capitano Antonio Caudola o Caldora, già duca di Bari.
Nella lotta per la successione al regno di Napoli, Renato d' Angiò fu sconfitto dall'altro contendente, Alfonso V d' Aragona (36). Questi tolse la Baronia di Castelluccio ai Caldora e la concesse momentaneamente alla Contessa di Celano.
Il nuovo re di Napoli Ferdinando I, conosciuto anche come Ferrante, dopo la vittoria ottenuta sugli Angioini a Lago di Sangue, assegnò definitivamente nel 1463 la Baronia al marito della Contessa Celano, Don Antonio d'Aragona de Piccolominibus, in seguito nominato anche duca di Amalfi.
Nel 1507, la Baronia passò a Don Giovanni Battista de Piccolominibus, figlio di Don Antonio e marchese di Iliceto o Ilicito, ora Deliceto, che nel 1519 la cedette a tale Giacomo Recca.
Nel 1561 la Baronia ritornò al Marchese di Deliceto, il quale, però, l'anno successivo la vendette a Marco Antonio Pepe di Napoli.
Cinque anni dopo fu acquistata per diciassettemila ducati dalla contessa di Biccari e di Ariola, nobil donna Emilia Carafa, la quale chiese ed ottene dal viceré di Napoli, con decreto datato 31 dicembre 1569, il titolo di baronessa e il privilegio di dichiarare sua camera riservata la Baronia di Val Maggiore.
Nel 1576, passo al figlio della Carafa, Ferrante Caracciolo ed in seguito ai suoi eredi.
Ultima dei Caracciolo fu Antonia, principessa di Riccia, contessa di Altavilla, duchessa di Airola, contessa di Biccari, Montuoro e Rotello, nonché baronessa di Castelluccio, Faeto e Celle.
Il dominio della Baronia, dalla Caracciolo passò al marito Giovanni Battista De Capua, principe di Riccia, e da questi ai vari eredi, fino a Bartolomeo II che la tenne in possesso per oltre cinquant'anni, cioé fino al 1792.
In quest'anno il burgensatico della Baronia venne donato a Francesco Vincenzo Sanseverino, duca della Saponara, mentre i diritti feudali furono devoluti al fisco che li ritenne fino all'inizio del secolo successivo, quando venne abolito il feudalesimo.
Notizie attinte da:
RUBINO V., Celle San Vito - Colonia francoprovenzale di Capitanata, Leone Editrice, Foggia, 1996.