Fine della festività di San Vito

Mentre Faeto preparava la festa, quelli di Celle rapivano San Vito.

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"Il santo è proprietà nostra, e non lo vogliamo cedere a nessuno" - Nel cuor della notte, furtivamente, l'azione diretta - La porta della chiesa è rimasta inchiodata, ma il pellegrinaggio si è svolto ugualmente!


Per San Vito, quest'anno, a Faeto, nel sub-Appennino foggiano, si era voluto fare le cose in grande. Non più la solita festa campagnola a 1150 metri di altezza, davanti alla rustica cappella circondata di una verde chioma di faggi, proprietà dei Maresca di Serracapriola, ma una vera e propria sagra con premi per bancarellari ed osti, per musicanti e fotografi, e con la elezione addirittura di una Miss, che ovviamente si sarebbe chiamata Miss San Vito.

Ora io non so se per questo si sia messo di mezzo Santa Crescenza che, con San Vito e San Modesto, è patrona del luogo, o non piuttosto fu opera del diavolo, se le cose, purtroppo, sono andate molto diversamente da come si erano progettate.

Ordunque. Un mese fa, all'incirca, a Faeto, si cominciò a parlare della imminente festa.

-  San Vito, questa volta, bisogna onorarLo come merita. Tutto l'anno stiamo là a raccomandargli le nostre cose, ché un po' abbiamo il figlio ammalato, un po' la vaacca ha il parto difficile, un po' i campi vanno male, un po' non piove, un po' diluvia, eccetera, eccetera. Lui, San Vito, appena si sente interpellato, smette i divini conversari con San Modesto e Santa Crescenza, che gli stanno a destra e a sinistra, sotto la stessa nicchia, come due buoni fratelli, e subito tende l'orecchio alle nostre parole. Oh! Si capisce, non sempre può esaudirei in tutto, perché non dipende da lui solo, ma, il più delle volte, le nostre preghiere sono ascoltate. Per questo, dimostrando egli avere animo gentile, nonché comprensione massima, lui che pure è guerriero e cacciatore, tanto vero che tiene in catene ai piedi due molossi cosi, per questo, appunto, degno d'altro che dei quattro rusticani zompetti all'aria aperta, mentre la gente pensa già al vino e al cibo, se non ad altro. Gli dobbiamo fare un a festa bella che se ne parli dovunque. Ecco tutto -.

Siffatti discorsi tennero occupati per più settimane gli abitanti di Faeto. Poi si fece un comitato civico col sindaco in testa, il quale diramò gli inviti ai paesi vicini ori, sollecitando adesioni e quattrini.

Tempestivamente i Comuni interpellati risposero all'appello. Panni, Montaguto, Roseto, Greci, Ariano, Grottaminarda, Castelfranco, Montefalcone, Biccari, Alberona, che sono paesi non soltanto del foggiano, ma del beneventano e dell'avellinese, spedirono adesioni e quattrini. Solo Celle non si fece viva. Pure è lì, a due passi di distanza. Volendo, anche una voce avrebbero potuto dare, e quelli di Faeto avrebbero udito. Invece silenzio e solo silenzio.

Cos'è, cosa non è , un bel giorno il sindaco di Faeto, che si chiama Antonio De Girolamo, prese il coraggio a due mani e andò nel vicino Comune, scese cioè da 900 a 600 metri, per interpellare il collega, insegnante Nicola Perrini, il quale apparve in piazza con la Giunta al completo e tutti i maggiorenti allineati per due. Interpellato sulla festa, rispose scusandosi col dire che era stato in quei giorni occupatissimo, che non aveva avuto un attimo di tempo ecc., concludendo, però, col sottolineare che il Comune, essendo pieno di debiti, non poteva levar via un centesimo falso. Comunque avrebbe risposto all'invito.

Antonio De Girolamo se ne ritornò a Faeto rimuginando tristi pensieri. Tutto sommato l'abboccamento col collega non gli era affatto piaciuto e quelle parole, dette e non dette, lungi dal rassicurarlo, lo avevano messo di malumore.

 

-  Che non ci sia sotto qualcosa? - si chiedeva scendendo a Valle da Celle, e quindi salendo tra querce, olmi e faggi, nel silenzio della sera.

 

- Qualcosa deve bollire per forza in pentola! In definitiva, però, non aveva tutti i torti il primo cittadino di Faeto a pensarla così, perché il territorio dove sorge il tempietto, o cappelletta che sia, appartiene, sì, al Comune di Faeto, però i tre Santi con la loro edicola sono proprietà del Comune di Celle. In altri termini, San Vito e compagni erano ospiti dei faetani, ma appartenevano ai cellesi.

 

- Che non ci sia piuttosto sotto sotto un poco d'invidia o qualcosa di simile, perché noi di Faeto vogliamo fare quest' anno addirittura una "Sagra" al posto della solita festicciola campestre col Santo che è di Celle? - si chiedeva il Sindaco, il quale, tra il si, il no e il ni, quella notte non chiuse occhio.

Passarono due, tre, quattro giorni. Passò una settimana. Sfumò una decade. Da Celle, però, non giungeva risposta alcuna, e, intanto, il giorno della festa, che cade il 15 giugno, si avvicinava a gran passi. Ora le adesioni non si contavano più. Finanche l'ENAL e l'EPT di Foggia avevano promesso valido interessamento; il primo con la partecipazione dei famosi canterini foggiani e il secondo mettendo in palio ricchi premi in danaro.

 

- Come la mettiamo con i cellesi, insomma, signor Sindaco?chiesero alfine i faetani. - Tra una settimana è la festa, e quelli non si fanno vivi. Recatevi da loro un'altra volta, fate lo per l'anima dei vostri cari, e vediamo di che morte dobbiamo morire. Volente o nolente, Antonio De Girolamo scese ancora a valle, salì fino a Celle, per incontrarsi daccapo col signor Sindaco, il quale, dopo i soliti convenevoli, scattò.

 

- Calma, calma, collega, - sospirò De Girolamo, che è di natura conciliante; - io son venuto fin qua per discutere, non per accapigliarmi. In breve, infatti, un accordo parve raggiunto. Fu soppressa l' elezione di Miss - San Vito per non fare onta a Santa Crescenza. Furono soppressi i balli campestri. Idem per canti e canzoni, che dovevano semmai superare la censura dei parroci dei due paesi. Si stabilì che il ricavo dei dazi, pedaggi, posteggi, eccetera, sarebbe andato a beneficio del tempietto, ovverosia dei cellesi. Pareva, insomma, che tutto fosse andato liscio, e già il Sindaco di Faeto stava per congedarsi con una bella stretta di mano, quando, come folgore a ciel sereno, i cellesi in massa comunicarono che a nessun costo avrebbero permesso e voluto che la festa si facesse.

 

- San Vito è proprietà nostra e non lo vogliamo cedere a nessuno per tutto l'oro del mondo. La festa pertanto la faremo noi senza bisogno di collaborazione da parte di chicchessia e tanto meno vostra, signor Sindaco di Faeto. Abbiamo detto.

Dopodiché, compattissimi, con il Sindaco in testa, assessori e notabili allineati per due, lasciarono in asso Antonio De Girolamo.

Povero ed afflittissimo Sindaco! Con le pive nel sacco e il veleno nel cuore scese daccapo a valle, di là risalì l'erta fino al paese, rimuginando pensieri tristissimi.

 

- Ed ora, pover'uomo, chi si mette con quelli di lassù? - si chiedeva- Come farò? Come non farò? E vi sarà, per questo, una crisi comunale, Dio non voglia! - Non mi chiedete nulla, cittadini, andate a dormire, ché domani se ne parla,

 

- disse ai faetani che lo attendevano all'ingresso del paese. Quindi, ritirato si a casa, si ficcò sotto le coperte, senza dire né a né b.

E, intanto, cosa succedeva dall'altra parte della vallata? Muoveva a notte alta un manipolo di prodi decisi a tutto osare. In silenzio, l'uno dopo l'altro, salivano per il viottolo della montagna, senza neanche accendere un fiammifero nella notte illune, sull' orlo dei precipizi, per giungere, dopo due buone ore di marcia, davanti al romitorio sul monte, dove San Vito, al suo solito, parlava di cose celesti con Modesto e Crescenza.

 

- Apri, Giuseppe,- intimarono allora a Giuseppe Picheca, il romito-custode del tempietto, il quale, svegliato di soprassalto e temendo che fossero i briganti, fingeva di dormire alla grande; quando, però, quelli da basso stavano ormai per sfondargli la porta: - San Vito bello, e qua che succede? - si chiese e tirò il paletto, mentre la moglie (il romito è sposato ed ha due bambini), cominciava a strapparsi i capelli a ciocche.

 

- Apri subito la chiesetta, - ordinarono, mentre quello in mutandoni e col lume in mano diceva barbugliando: - Mo', mo', che non c'è fretta. Quindi i forsennati si buttarono in ginocchio davanti all'altare: - San Vito, e Voi, Santo Modesto e Santa Crescenza, perdonateci, perché non siamo degni nemmeno di leccare la polvere di questa chiesa, ma quei fetentoni dei faetani non devono farsi belli di voi che siete nostri, siete proprietà nostra, siete cellesi, insomma, non faetani, anche se siete loro ospiti. Col vostro permesso, vi porteremo con noi, ve ne verrete a Celle, dove l'aria è buona come quassù e non mancano né candele né luminarie. Ciò detto, con le lacrime agli occhi, con la schiuma alla bocca, con solenni cazzottoni a mezzo il petto, si caricarono i tre Santi sulle spalle e giù a rotta di collo per il viottolo da capre, meglio che se fosse stato un viale asfaltato.

Però, stavolta, i celle si accendono le fiaccole che avevano portato su, ed ogni tanto rimbomba un colpo di fucile, e s'odono gridi di gioia all'indirizzo dei tre Santi, nonché risate e scherni diretti agli ignari faetani sprofondati in felicissimi sogni.

Breve. Oggi come oggi i tre Santi sono ancora a Celle, anche se la festa si è ugualmente svolta quassù davanti alla chiesetta col solito grande concorso di pellegrini, con canti e con suoni, con mangiate e bevute. Ben pochi sono stati purtroppo ad accorgersi che la porta della chiesetta era inchiodata con una sbarra per traverso e che il povero Picheca non aveva il coraggio di guardare a nessuno. Vile, ché invece di morire come un eroe cristiano, si era fatto portar via tutti e tre i Santi insieme.

 

- Li condurremo lassù, quando ci farà comodo, - dicono quelli di quota 600.

 

- Prima o poi li dovete mollare, - dicono quelli di quota 900. E, intanto che gli uni e gli altri si guardano in cagnesco, il brigadiere dei carabinieri va su e giù per la piazza torcendosi i baffi, e a chi gli chiede cosa ne pensi di questo stranissimo furto, risponde: - Questi di Celle non li posso arrestare per furto, quelli di Faeto non possono adire i Tribunali. Nessuno di noi può quindi far nulla, ma solo San Vito, se lo volesse. Quello, però, se ne sta sempre a parlare di cose celesti con San Modesto e Santa Crescenza, e forse nemmeno si è accorto di aver cambiato aria e fedeli. Pur privata delle funzioni religiose e con la Chiesetta chiusa al culto del popolo, la Sagra ebbe tuttavia pieno successo.

Vi partecipò una folla immensa, accorsa da vicino e da lontano, con l'intervento di molte autorità e personalità.

Fu questa l'ultima edizione di una manifestazione che avrebbe certamente contribuito, in modo decisivo, alla valorizzazione di tutti i settori della vita sociale della nostra zona.

 

(da RUBINO L. e V., Lò Cunte d Tató:n, pp. 101/7, cifr. "il Giornale d'Italia", 22/6/1955)

Pagina aggiornata il 22/02/2024