L' altra Italia

Viaggio all'interno delle minoranze etno-linguistiche italiane

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Descrizione

I FRANCOPROVENZALI DI CAPITANATA

 

 

Testo e sceneggiatura di Alessandro Giupponi
Consulenza storico-scientifica: D. Raffaele Castielli - Vincenzo Rubino
Organizzazione generale Giuseppe Improta
Prodotto da Alessandra Infascelli
Regia: Alessandro Giupponi 


Faeto e Celle San Vito sono due paesi vicini che rappresentano l'unica isola linguistica francoprovenzale dell'Italia centro-meridionale. Si trovano nell'antica Capitanata, l'attuale provincia di Foggia.

Le colline circostanti conservano inconfondibili i segni storico-archeologici dell'Antica Roma.

Da qui sono passate, attraverso la Via Traiana, le Legioni romane, provenienti dal Sannio e dall'Irpinia, dirette verso il porto di Brindisi.

Il territorio di questi due paesi montani, addossati alla vetta più alta della Puglia, conserva gelosamente nascosti i tesori dell'antica cultura francoprovenzale.

Queste memorie, oggi ritrovate, rappresentano il frutto di una lunga ed appassionata ricerca che fa tornare in vita gli oggetti, gli usi, i costumi, ma soprattutto le parole di una lingua che si è andata perdendo con la scomparsa dell'antica civiltà contadina decimata da drammatiche emigrazioni.

Faeto, "il Tetto della Puglia" per la sua altitudine di quasi 900 metri, è il Comune più alto della Regione.

Le campane della Chiesa Parrocchiale del San Salvatore, suonando a distesa, chiamano a raccolta la popolazione per la messa vespertina, celebrata, in molte sue parti, in lingua francoprovenzale.

La semplice spiritualità di cui è pervasa la Chiesa accentua le sue suggestioni quando il tempio è pieno di anziani, giovani e bambini che cantano, pregano e rispondono al celebrante nella loro antica lingua, pur mescolata, ormai, ai dialetti pugliesi, irpini e sanniti.

È la lingua, dopo la Fede, che continua a tenere unita questa comunità ormai così sparuta.

Il fatto che il sacerdote nella sua predica e nella lettura delle Sacre Scritture si rivolga al suo popolo nell'antico linguaggio comune, rende più chiaro e profondo il significato collettivo del rito che appare semplice, anche ai bambini che lo intendono.

Questa Chiesa, oggi così serena nell'offrirsi alla Fede, vissuta in modo così totalmente comunitario anche attraverso la lingua, nasconde origini violente e successivi drammatici sviluppi.

Nella seconda metà del 1500 giunsero a Faeto predicatori protestanti seguaci di Pietro Valdo, forse attratti proprio dalla somiglianza della lingua che, già da secoli, qui si parlava.

Per arginare questo movimento valdese Papa Pio V con bolla istituì a Faeto la Parrocchia del SS. Salvatore.

Nasceva così la Chiesa faetana, indipendente dalla Baronia feudale di Castelluccio, nel nome del Salvatore.

Il rito festoso della Comunione è reso più suggestivo dai canti che lo accompagnano.

La corale di cittadini faetani è uno strumento importante per tenere legate le persone, attraverso il comune linguaggio, alle radici ormai sempre più esili della ricchezza culturale che consiste nella consapevolezza della propria diversità.

La Corale di Faeto è depositaria anche del tradizionale repertorio profano che si è andato accumulando nel tempo.

Melodie che hanno accompagnato il passare delle stagioni, la vicende del lavoro contadino, dell'amore, delle drammatiche emigrazioni di questa comunità che resiste isolata nell'arco delle sue piccole roccaforti sui monti più alti della Puglia.

I francoprovenzali di Faeto e Celle di San Vito hanno imparato a farsi ascoltare sempre di più da quando recentemente hanno preso conoscenza dell'importanza del patrimonio culturale, della loro storia e di quello naturale che lo circonda.

Faeto e Celle di San Vito si fronteggiano e si guardano in faccia da secoli su due opposte colline.

I vicoli stretti, le scale di pietra, le chiavi di volta e i fregi degli archi raccontano di una storia vissuta con umiltà e dignitoso isolamento.

Iscrizioni latine, incise su ceppi di pietra, ricordano le lontane origini del monastero benedettino "Santa Maria de Faito", da cui forse deriva il nome del paese.

Sotto la torre campanaria, una lapide ricorda i caduti faetani nelle guerre per la libertà del territorio nazionale, mentre una targa bilingue indica la "Casa del Capitano".

Risalente al XV secolo, l'edificio, di elevato interesse storico ed artistico, è una importante testimonianza della penetrazione in terra di Capitanata della cultura artistica che in epoca aragonese coinvolse molti paesi rivieraschi ed interni dell'Italia meridionale.

La "Casa del Capitano" è oggi il centro della storia di Faeto.

La quiete dei vicoli attorno alla Chiesa parrocchiale è rotta dalle grida festose dei bambini che, usciti da scuola, arrivano nella piazzetta accorrendo per giocare una partita a pallone.

Il centro antico del piccolo paese è come un quartiere periferico di una grande metropoli: vive della voci e dell'agonismo dei piccoli sportivi.

Ma oggi un rinvio maldestro del portiere...

Ai ragazzi non era mai successo di dover entrare in quel luogo. Di giorno la porta era sempre chiusa.

- Ma che posto è questo! Che cosa è tutta questa roba!

- Mio nonno dice che qui abitava il capo dei briganti!

- Ma no! Questa era la casa più importante: vi abitava il Governatore del paese.

- Ma chi abita qui dentro! E tutte queste robe da dove vengono!

- Una come questa c'è anche a casa di mio zio, in campagna!

- Zitti, zitti! Guardate!

Chi era quell'uomo che li fissava! Forse, era il padrone di tutte quelle cose!

Cominciò a parlare e raccontò di quella casa misteriosa e la storia di tutti quegli oggetti che sembravano accumulati a caso, l'uno sull'altro, senza nessun senso; invece erano la storia di Faeto: avevano nomi antichi che non si pronunciano più.

Quella era la casa della "parole perdute" e lui era tutta la vita che le stava ritrovando.

Tutto cominciò quando il Papa fece scendere in Italia Carlo D'Angiò, Conte di Provenza, potentissimo figlio del re di Francia, per combattere gli ultimi eredi della dinastia Sveva.

Arrivò con il suo potente esercito fino a Benevento e di lì passò a Lucera.

A Lucera nel grandissimo castello fortificato che proteggeva la città, vivevano in pace, dai tempi del grande Federico II, oltre 20.000 saraceni.

Erano protetti dall'Imperatore che li considerava come i suoi più impotanti e fedeli alleati.

Era, forse, un modo per ottenere il perdono di Santa Madre Chiesa per i suoi peccati di guerriero.

Dove prima c'erano le Moschee sorse, quindi, una della più belle creazioni dell'architettura angioina dell'Italia meridionale.

Il Tempio dedicato all'Assunta venne fondato da Carlo II nel 1300 a seguito della distruzione della colonia saracena.

La costruzione della Cattedrale gotica fu rapidissima; a due anni di distanza era già consacrata e nel 1317 finalmente terminata.

Dopo le sue vittorie sugli infedeli, Carlo II ottenne da Papa Bonifacio VIII la facoltà di elevare una Chiesa in onore di San Francesco d'Assisi e di fondare un convento per i minoriti.

Costruita in pochi anni, la chiesa sorgeva nella parte più alta della città medioevale.

Garantiva la fedeltà della Casa d'Angiò al trono del Papato di Roma.

L'ampio rosone introduce al godimento artistico e spirituale del meraviglioso interno che riceve luce, libera nel suo svettare verso il cielo, dalle tre lunghe vetrate dell'abside.

Affreschi di scuola toscana ornano le pareti. Tra essi primeggia l' "Annunciazione a Maria", gelosamente custodita in una bifora marmorea scolpita in stile angioino.

Tutta la Chiesa è un inno artistico che incensa valore e potere della Casa d'Angiò, padrona dei destini del Regno meridionale.

Ma anche le dinastie più potenti sono costrette a seguire un destino che prima o poi li porta all'estinzione.

La Casa di Aragona portò, dopo molti scontri, gli ultimi e deboli discendenti dei d'Angiò ad essere sconfitti e a perdere il trono di Napoli dopo due secoli di regno.

In questa vallata tra il paese di Orsara e la Via Traiana avvenne l'ultima tremenda battaglia.

Questo luogo prese il nome di Lago di sangue per il massacro che vi fu compiuto.

Oggi qui pascolano le pecore e di quel massacro non vi è rimasta alcune traccia.

Tracce non meno importanti, anche se meno antiche, sono quelle della civiltà contadina.

I "Pagliai" sono costruzioni circolari realizzati con pietre a secco dalle ardite e forse antichissime concezioni architettoniche.

Ci raccontano ancora oggi, ritmi, lavori e fatiche di una antica vita contadina che, nell'isolamento della campagna, qui può ancora essere salvata.

Proprio di fronte a Faeto in alcune masserie ci sono ancora persone che continuano ad arare la terra con gli antichi metodi e gli stessi strumenti di tanto tempo fa.

Un'utilità di eccezionale interesse che, in termini socio-culturali, ha il valore del ritrovamento di un prezioso reperto ellenistico.

La fatica è enorme ed oggi appare impensabile per i ragazzi, che ascoltano i racconti di Vincenzo.

Eppure qui questa tradizione è riuscita a mantenersi perché la produzione del grano è una delle pochissime fonti di ricchezza; una ricchezza povera che va curata metro a metro per ciascuna zolla di terra.

A queste altezze, infatti, oltre gli 800 metri, si riesce a seminare e a far crescere il grano per arrivare poi a tagliarlo a volte anche nel mese di agosto. E bisogna saperlo seminare: a mano, lentamente, con gesto costante nel ritmo e sempre uguale nella forza, perché ogni chicco è un seme potenziale ed ogni seme una potenziale piantina di grano; perché il grano è l'oro dei poveri; perché il grano è, sempre di più, l'oro del mondo.

Per essere macinato, il grano si portava ai mulini e i mulini si trovavano dove c'era l'altra grande ricchezza: l'acqua.

Vincenzo spiega come si pestava il grano e come funzionavano i mulini ad acqua fino a poco tempo fa.

I ragazzi, tra i mortai e le macine di pietra che Vincenzo ha trovato abbandonati nei torrenti, ascoltano racconti nuovi e mai sentiti, in una lingua antica e conosciuta da sempre.

Il torrente Celone scende tumultuoso dai monti e scorre vicino a Faeto per poi passare sotto la roccia di Celle San Vito.

Lungo il suo corso fino a pochi decenni fa si contavano numerosi i mulini ad acqua di questa sempre verde e freschissima valle.

Il mulino rappresentava con la piazza, la Chiesa e la cantina uno dei centri di vita economica di questi paesi.

Oggi, ruderi abbandonati, sono un'altra testimonianza architettonica di una civiltà povera che, con la perdita di alcune sue attività, ha perso anche l'uso di molte parole della sua lingua antica.

Fatta la farina, bisognava fare il pane e non era, come si può credere, un'operazione così breve e così semplice perché questo bene prezioso lo si doveva conservare a lungo.

I ragazzi scoprono oggetti ancora familiari ma di cui non hanno mai conosciuto la funzione che, pure in alcune masserie delle colline vicine, è ancora in uso per occasioni particolari.

E' un rito che si ripete e il cui fascino principale consiste nella sua forza aggregante per tutta la comunità familiare e per tutte le famiglie vicine.

Fare il pane vuol dire anche possedere il tempo dell'attesa e il paziente rispetto che la natura faccia il suo corso e che la pasta lieviti.

Ma il sapere aspettare non vuol dire perdere tempo.

Altri devono mungere le mucche, mentre il vitellino aspetta, perché si deve iniziare a preparare il formaggio.

Il fuoco è acceso e già il latte comincia a fumare all'aria fredda del mattino.

Giro dopo giro si deve arrivare alla giusta temperatura...ma ora la pasta è già pronta.

E' il tempo di impastare per dare forma alle prime pagnotte che non si debbono raffreddare e vanno protette avvolgendole in candidi teli.

I cesti, oggi, come tanto tempo fa, vengono trasportati nel modo più veloce, perché il forno è già pronto con la temperatura giusta.

Le forme di pasta di pane fresco ora possono essere infornate con amorevole cautela, mentre anche il latte ha raggiunto la temperatura giusta per essere versato nel mastello di raccolta.

Ma anche in questo caso si deve saper aspettare che la natura faccia il suo corso, perché il latte si trasformi in formaggio.

Viene versata la giusta dose di caglio che viene amalgamato al latte con antica sapienza e, una volta coperto il tutto, anche in questo caso, si tratta di aspettare, perché la pazienza premi la fatica con i frutti migliori.

Il pane è uscito dal forno caldo e croccante e, subito, viene protetto.

Anche l'impasto del formaggio è ormai pronto. Tolto il coperchio, mani rese accorte da secoli di esperienza usano un mestolo come frangicagliata e poi iniziano una prima spremitura per separare l'impasto fresco dalla parte più liquida del siero.

E' un rito antico eseguito con delicata manualità; un rito al quale non si è più abituati e che qui si è ancora conservato.

Messa in piccoli cesti, questa pasta di formaggio dopo leggere pressioni viene deposta su di una antica spersola: il banchetto che permette la lenta e progressiva scolatura del siero in un altro mastello posto al di sotto del canale di scolo.

Nulla viene disperso nell'economia del mondo contadino e quasi tutto viene utilizzato per infiniti diversi usi.

E così, spiega Vincenzo, l'arguzia contadina delle genti di montagna andava inventando incredibili sistemi di razionalizzazione del lavoro che sono rimasti in uso fino a pochi decenni fa.

Vincenzo spiega come si fa a far funzionare la macchina per separare gli acini di granturco dalle pannocchie e i ragazzi si cimentano con applicazione ad un lavoro che facevano ancora poco tempo fa i loro nonni.

E la macchina funziona ancora perfettamente accompagnando con il suo allegro scricchiolio la cascata dei chicchi dorati che precipitano nel contenitore.

Erano lavori che un tempo si eseguivano in comune nell'aia della masseria e che sviluppavano la solidarietà di gruppo, malgrado la fatica che comportavano. Lavori che venivano eseguiti in ogni stagione.

Oggi è sempre più raro imbattersi in questo tipo di impegno manuale collettivo, ma tra i francoprovenzali del Subappennino Dauno di Capitanata questo è ancora possibile.

Il ritmo lento e costante col quale i due uomini battono le pannocchie sfogliate è simile alla scansione del tempo di un qualche vecchio orologio.

Questo battito monotono ci accompagna all'indietro nel tempo e, purtroppo, si allontana nel vento andandosi a perdere nel silenzio.

Questo splendido edificio medioevale ad uso campestre sorge in un luogo fondamentale per la storia delle comunità francoprovenzali.

Proprio qui, anticamente, mise radice il primo insediamento medioevale dei sudditi angioini.

I ruderi di questa chiesetta, dedicata a San Vito, ricordano l'antica giurisdizione ecclesiastica del Vescovo di Troia risalente ai primi anni del 1000.

Nei prati davanti a San Vito, fino a pochi decenni fa, si teneva una grande fiera campestre alla quale partecipavano tutte le popolazioni dei paesi vicini.

Vicino alla fonte chiamata "Aquilonis", dalla quale nasce il torrente Celone, una lapide latina ricorda la vecchia strada romana.

Qui vi era anche l'antica contrada romana dell'insediamento del "Castrum Crepacordis" sulla Via Traiana percorsa da tutti gli eserciti che nei secoli seguirono le legioni romane.

Questa Via ha visto anche il passaggio dei Cavalieri crociati e pellegrini verso il porto di Brindisi, da dove l'imbarco per Gerusalemme e la Terra Santa.

Antiche poste medioevali ci ricordano che per duemila anni tutti i potenti eserciti di diverse civiltà, hanno sempre sfruttato, senza modificarle, le caratteristiche ambientali di questi luoghi che hanno consentito il mantenimento della comunità francoprovenzale.

La Via Traiana che si snoda tra le splendide colline del Subappennino Dauno, se restaurata, sarebbe ancora oggi la strada più breve per raggiungere le sponde del mare Adriatico.

Ogni altura in questi luoghi è stata un possibile castrum romano.

Ma la presenza di Roma è esaltata in Lucera dal suo Anfiteatro Augusteo.

I due portali d'ingresso dell'immenso edificio si fronteggiano ai Iati opposti adorni di colonne ioniche e due eleganti timpani non dissimili dai coervi archi trionfali augustei.

Una recente campagna di scavi e i susseguenti restauri hanno portato alla luce questa importante testimonianza imperiale che prima gli Svevi e gli Angioini più tardi finirono di spogliare per costruire con i suoi marmi castelli e cattedrali.

Con tutta questa storia alle spalle ci si avvia verso Celle di San Vito precedendo il cammino di un contadino che a piedi sta andando verso il paese, di ritorno dal suo lavoro nei campi.

Il piccolo abitato sorge su di una collina rocciosa ad oltre 700 m. di altezza.

Qui si completa nella sua ridotta entità la più piccola colonia alloglotta d'Italia.

Con la sua linda Chiesa parrocchiale al centro, Celle, tutta sviluppata per il lungo suo versante roccioso, deriva la sua denominazione dai resti di un antico Cenobio fondato dai Benedettini prima del 1000.

Qui si insediarono i cavalieri Gerosolomitani per difendere i pellegrini dalle insidie dei luoghi.

Qui, presso questo convento, vennero i primi francoprovenzali a cercare asilo in queste celle monacali e qui rimasero per sempre.

Anche a Celle si tramandano i ricordi della presenza saracena.

I contrapposti ancora possenti della cinta muraria esterna, che protegge il paese, ci parlano di grandi isolamenti e di spossanti difese.

Da qui la vista scende fino al promontorio del Gargano e, prima di arrivare al mare, si possono vedere nell'aria limpida, gli agglomerati di Troia, Lucera e Foggia, città madri della comune storia francoprovenzale.

La misteriosa Casa del Capitano, per i ragazzi di Faeto, ormai si è rivelata per quella che è: un Museo, l'amichevole depositario di tutti i ricordi francoprovenzali raccolti da Vincenzo nel corso di una vita.

Gli oggetti qui accumulati parlano ai ragazzi oltre che del lavoro degli uomini anche della casa e dell'ambiente familiare dove le donne hanno saputo conservare i segni più caldi e confortanti della tradizione.

E le donne di Faeto e di Celle, ancora oggi, si ritrovano tra loro in date e in occasioni ricorrenti.

È fondamentale la loro partecipazione al mantenimento della cultura francoprovenzale; una cultura della tolleranza che conserva i ricordi di molti valori passati, compresi quelli della libertà di culto, derivanti dalle trascorse componenti protestanti e di equalitarismo sociale.

La "Festa della donna", che si celebra ogni anno a Faeto, tiene viva, infatti, non solo gli ulteriori valori folclorici, ma i più antichi segni culturali di una società agricola e montana di lontane radici francoprovenzali delle valli francesi.

Negli splendidi boschi di queste montagne i suoni antichi di un ballo misterioso, tramandati con racconti e leggende mitologiche, ci portano lontano, indietro nel tempo, sull'accompagnamento di passi di fate che proteggono la vita di questa minuscola comunità in provincia di Foggia.

La sera tardi, come per un loro incantesimo che ancora riesce a realizzarsi nel 2000, i ragazzi di Faeto hanno compreso come essere protagonisti del loro futuro e portano al loro Museo altri oggetti che sono andati a scovare nelle varie case.

Passato e Futuro, così uniti, rappresentano l'investimento più prezioso verso il raggiungimento di una comune civiltà europea che gli enti locali, con in testa la Provincia di Foggia, sapranno sempre più tutelare e valorizzare

Pagina aggiornata il 22/02/2024